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NOTA INTRODUTTIVA ALLA MIA GRAFICA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALL'ACQUATINTA
(E' il testo di un opuscolo che avevo diffuso in occasione della mostra di grafica tenuta
nel Luglio '98 presso la Galleria "Europa" in Torino)
Da sempre appassionato di grafica, animato da profonda
ammirazione per l’opera di Goya, sono approdato
all’acquatinta dopo aver praticato lungamente la fotografia e
dopo essermi dedicato, conclusi alcuni esperimenti di serigrafia,
dapprima al bulino, quindi alla puntasecca ed ancora alla linoleografia.
A differenza delle acqueforti, che mantengono connotati
decisamente analoghi al disegno, le creazioni grafiche realizzate in
acquatinta si avvicinano decisamente alla pittura, ma pagano lo scotto
in termini di limitazione nella tiratura dato che, superati i 30-35
esemplari, la qualità inizierebbe a decadere irrimediabilmente.
Non essendo interessato a lucrare sulle stampe da me realizzate e
tirate, mi mantengo rigorosamente su soli 10 esemplari assicurando in
tal modo il massimo della qualità. Pertanto siffatta limitazione
non deriva dall’intento di rendere più preziosi i singoli
esemplari, ma da un’esigenza di "ubiquità"; quella di
poter essere contemporaneamente presente in più mostre
(personali o in collettiva).
Ciò che non riesco a comprendere è perché
mai, ancora oggi, non si tenda alla sperimentazione di nuove tecniche
che consentano lo sganciamento dell’acquatinta
dall’acquaforte, operando, nella grafica artistica,
un’innovazione paragonabile all’avvento
dell’Impressionismo nei confronti del Neoclassicismo.
Si preferisce, fatte salve modeste varianti, continuare con le
stesse tecniche codificate nel XVIII secolo (granitura a sacchetto e
setaccio con colofonia o a cassetta con bitume) mentre abbiamo la
fortuna di disporre di strumenti che avrebbero prodotto chissà
quali capolavori tra le mani dei grandi maestri del passato.
L’affrancamento dell’acquatinta dall’acquaforte resta
impensabile se ricercato con quei sistemi (virtuosismi indubbiamente
egregi che non consentono il totale controllo sulle campiture e
sull’azione dell’acido) per cui l’acquatinta resta
ancora oggi confinata in un ruolo complementare dell’acquaforte.
Il vero salto di qualità è rappresentato dalle
potenzialità del PC nell’elaborazione delle immagini
destinate all’incisione che, pur realizzata in maniera
esclusivamente manuale, si avvale di una svariata serie di controlli
indispensabili, di fatto, a tradurre al meglio il messaggio
dell’artista
Il sistema da me lungamente praticato (e completato con le
manipolazioni chimiche che ho inteso sperimentare) getta così le
basi per un diverso (e ritengo più raffinato) modo di realizzare
l’acquatinta ; le prove riportate nel sito, pur condizionate
dall’approssimativa riproduzione nel web, lo dimostrano
chiaramente.
___________________
Quanti osservano le mie stampe sono portati spesso a parlare di impatto
iperrealista. Tengo a sottolineare che, al di là del
sostantivo, di autenticamente iperrealista resterebbe ben poco qualora
l’adozione dell’aggettivo dovesse far pensare ad immagini
classificabili nell’ambito dell’omonima corrente artistica.
Questo particolarissimo tipo d’impatto può essere
attribuito, in parte, alla circostanza, apparentemente banale, che
preferisco servirmi della fotocamera anziché del disegno nel
tracciare immagini che, tuttavia, a lavoro ultimato, risultano
difficilmente collocabili nella sfera della parafotografia e, men che
meno in quella del pittorialismo.
APPROFONDIMENTI
Concetto di "LUOGO DELLA MEMORIA"
Alla base delle mie opere
Omologazione e standardizzazione; due pesanti condizionamenti
L’effetto monocromo
La compressione della scala tonale
L’originalità del segno
Perché prediligo l’acquatinta
Rilevanza
del tipo d’impatto riferito al fattore che resta alla base della
mia ricerca e che definisco "luogo della memoria"
L’occhio
umano (ad eccezione di complicazioni patologiche e pur esplorando la
realtà per punti) non differisce sostanzialmente da un obiettivo
da 45°. Può assumere addirittura una configurazione "tele"
quando si concentra sui particolari mentre, a livello di semplice
percezione, può abbracciare un campo raffrontabile a quello di
un medio grandangolo.
La
sostanziale differenza di risultato tra la cosa osservata ed una
fotografia sta tutta in ciò che consegue al processo di
ripresa del soggetto. Dietro l’obiettivo c’è
un’emulsione sensibile (la pellicola) che, opportunamente esposta
e trattata, dà un’immagine finale; immagine che
risulterebbe sempre identica in pari condizioni di ripresa, di
materiale impiegato e di successivo trattamento. Dietro l’occhio
c’è il cervello, con connotati che ovviamente variano da
un osservatore all’altro.
Il
cervello guida l’occhio all’esplorazione della
realtà circostante e, una volta acquisite determinate
informazioni visive, le interiorizza selezionandole, trasformandole ed
alterandole fino a ricavare, non una memoria fedele di ciò che
ha registrato, ma quel che io definirei un "luogo della memoria" ;
un’immagine, vale a dire, fortemente soggettivizzata
poiché trasformata secondo il gradimento, le caratteristiche e
le esigenze del proprio "io".
Si
pensi alla scarsa fortuna spesso incontrata da molti grandi fotografi
del passato (Nadar in testa) allorquando affrontavano il ritratto. Lo
realizzavano privilegiando sapientemente la resa realistica del
soggetto e questo quasi mai vi si riconosceva (anche l’idea che
ci facciamo delle nostre sembianze può essere considerata un
luogo della memoria).
La
vista di un’immagine raccapricciante è destinata a
permanere nella nostra memoria molto più a lungo di una che ci
appare banale. Ma anche in questo caso la sensazione di assoluto
realismo che ci pare di conservarne è inconsciamente
condizionata dall’inevitabile trasfigurazione operatavi dalla
nostra emotività.
Va da
sé che, dalla nascita alla morte, il cervello non fa altro che
interagire con gli impulsi visivi che gli giungono dall’esterno e
che, una volta interiorizzati e soggettivizzati, contribuiscono a
formare una parte considerevole del nostro patrimonio mentale.
Queste
considerazioni, che sono alla base dei miei lavori, mi motivano a
realizzare opere che possano restare impresse al meglio nella memoria
di chi le osserva, trasmettendo messaggi la cui studiata manipolazione
intende costituire un input alla sua fantasia. Il fine ultimo resta, in
definitiva, quello di favorire anziché reprimere la libera
interpretazione dell’opera nella certezza che proprio il
concretizzarsi di tale proposito, assicurando la migliore
fruibilità del prodotto, serva anche a soddisfare lo sforzo di
chi lo ha realizzato.
Considerazioni alla base delle mie opere
Per
apprezzare al meglio il realismo di un’immagine è
necessario che la stessa presenti connotati tali da assicurarle una
permanenza di tipo ottimale nella capacità evocativa
dell’osservatore. Tale facoltà può risultare, a mio
avviso, direttamente proporzionale al grado di stimolo che
l’immagine cerca di fornire.
Una
fotocolor è senz’altro più realistica di una foto
in bianco e nero. Ma a livello evocativo, specie se a motivare lo
scatto c’era stato un evento piuttosto che un paesaggio,
sarà la seconda a riemergere con connotati più marcati
ogniqualvolta vorremo rievocarne i contenuti. Quale il motivo ? La
presenza del colore, segnatamente se prolisso e massimamente se non
funzionale al soggetto, finisce per trasformarsi in elemento di
disturbo ai fini della memorizzazione, deformando, per logica
conseguenza, il processo di richiamo mnemonico.
Da quanto appena detto deriva l’imperativo categorico di essenzializzare per ricordare.
Essenzializzare su tutto ; non solo sull’elemento colore.
A ben
vedere, infatti, quanto osservato a proposito del fotocolor può
essere tranquillamente applicato anche alla foto monocroma ; dove la
pur gradevole ricchezza della gamma tonale rischia di trasformarsi in
fattore confusionale ai fini di una rievocazione che intenda
ricostruire più fedelmente i reali elementi dell’originale.
Si
tratta di osservazioni che, segnatamente in presenza dell’attuale
contesto della vita, dovrebbero indurci a riflettere dal momento che ci
si trova immersi nella c.d. "civiltà delle immagini". Gli
eufemismi con i quali la stessa si ammanta per autogiustificarsi mirano
spesso a coprire (o, comunque, a minimizzare) i guasti arrecati alla
psiche dall’onnipresente martellamento di immagini che
costituiscono, nel complesso, altrettanti attentati alla nostra
capacità di reagire sotto il profilo emotivo. Ed anche quanti si
affaticano a deprecare un siffatto stato di cose non giungono ad
analizzarlo nei suoi aspetti più insidiosi.
Provate
ad affiancare due immagini di contenuto identico, ma differenti nella
realizzazione ; una stampa di Goya su "I disastri della guerra" (tanto
per rendere l’idea) ed una foto sulle vittime d’un
bombardamento.
Sono immagini valide entrambe per le quali, tuttavia, cambia radicalmente la reazione dell’osservatore.
La
prima privilegerà, nel processo d’interiorizzazione, gli
stimoli fantastici ; la seconda stimolerà, invece, reazioni di
tipo prettamente deduttivo.
Pur
non potendo aspirare all’oggettiva registrazione della
realtà, la fotografia è cosa diversa dalla riproduzione
manuale degli eventi soprattutto per la differenza d’impatto che
si determina tra chi osserva una fotografia e chi contempla
un’opera grafica. In quest’ultimo caso l’osservatore
è portato a vedere anche ciò che non c’è ed
a ripetere quel processo di personale interiorizzazione prima
illustrato.
Purtroppo,
nonostante le giuste osservazioni dei critici della fotoripresa,
quest’ultima resta acquisita, a livello d’immaginario
collettivo, come "autentica riproduzione della realtà" (da qui
la grande potenzialità mistificatoria di molte campagne
pubblicitarie o propagandistiche) per cui l’osservatore tende
inconsapevolmente ad interpretare l’immagine sul solo piano della
razionalità, trangugiando pari pari, con effetti
pressochè subliminali, segnali ed informazioni suggeriti o
sottintesi.
Se
aggiungiamo che la "civiltà delle immagini" è il naturale
corollario dei ritmi sempre più incalzanti dell’esistenza
; gli stessi che pare tendano a far prediligere la frenesia
dell’azione sulle più pacate esigenze della riflessione,
dobbiamo convenire che, di giorno in giorno, all’uomo della
strada risulta sempre più ardua la netta distinzione tra la
realtà e la rappresentazione che di essa danno i media.
Il pesante handicap dell’omologazione e della standardizzazione
Se si
osserva una buona immagine grafica realizzata nei secoli passati si
può esser certi che, nove volte su dieci, ci resterà
impressa con evidenza maggiore di quanto normalmente accade con le
videoregistrazioni o con quelle stesse foto patinate che ogni momento
ci cadono sott’occhio.
Se
intendessimo approfondire le ragioni alla base di un siffatto fenomeno
dovremmo andare ben al di là degli aspetti sopra analizzati e
valutare tutta una serie di fattori che mi sforzerò di
sintetizzare al massimo.
L’effetto monocromo
Elemento
di spicco in quanto fattore di rottura con la monotonia del colore
propinatoci con insistenza da ogni tipo di media (non è un caso
se alcuni professionisti preferiscono ormai affidare al "bianco e nero"
l’efficacia delle loro campagne pubblicitarie).
La compressione della scala tonale
A
seconda dell’emulsione (o dei pixel impiegati nella riproduzione
d’un soggetto) tale gamma potrà estendersi fino a
raggiungere, soprattutto con l’esposizione di tipo zonale,
svariate decine di grigi che serviranno a modulare la scena progredendo
dal nero (quando c’è) fino al bianco assoluto.
Per
contro, il tratteggio chiaroscurale tipico delle antiche stampe, non
superando, di norma, le tre o quattro tonalità, di fatto propone
un soggetto che s’impone all’attenzione per il fatto stesso
di risultare oggettivamente essenzializzato.
L’originalità del segno
Oggi,
la sostanziale omogeneità degli strumenti di ripresa fa
sì che alla miriade d’immagini prodotte (fisse o in
movimento che siano) difficilmente si accompagni una sostanziale
differenza di linguaggio tra i vari operatori. Alla ricchezza dei mezzi
si contrappone, in altri termini, la povertà del "segno";
di quello stesso segno un tempo inteso come mezzo artistico
diretto a modulare la vibrazione della luce.
E fosse solo questione di segno !
Attualmente,
a differenza d’un tempo, l’occhio resta afflitto dal fatto
di dover immagazzinare sistematicamente scenari caratterizzati da una
sorta di "calma piatta".
Confrontiamo
gli interni riprodotti nelle stampe di Rembrandt o di Van Ostade con
quelli propostici da Hopper. C’è abissale differenza
nelle volumetrie nonché nella direzionalità e nel tipo di
luce che le evidenzia. Nel primo dei due casi passiamo dalle invitanti
penombre d’una casa borghese ai chiarori centrali che si
perdono in ombre cupe ed inquietanti tra le volte di antiche
dimore contadine; non di rado spelonche con soppalchi sistemati a
fienile o vaste capanne in cui si celebra il rito del pranzo collettivo.
In
Hopper l’interno di un’abitazione del ceto medio si
differenzia appena da un’anonima sala d’attesa e questa dal
vano del bar sotto casa.
Passando
dagli interni agli esterni il discorso non varia gran che al punto da
dover quasi ammettere che per scorgere, oggi, qualche nota di colore
nel paesaggio urbano dovremmo attendere lo sciopero dei netturbini,
tanto è asfissiante e monotona la ripetitività geometrica
degli edifici e dell’arredo.
Che
dire poi delle odierne fonti d’illuminazione se non che sono
fredde e quasi sempre unidirezionali? Ed è forse questo il
motivo per cui, all’improvviso venir meno della luce elettrica in
casa, il modesto chiarore d’una candela, anzichè
rattristarci, spesso ci porta ad apprezzare ovattate atmosfere
d’intimità e di pace delle quali avevamo perso il ricordo.
A
forza di pianificare, omologare, uniformare, razionalizzare
l’esistente per "renderlo a misura d’uomo" si rischia, in
definitiva, di sterilizzare il disgraziato fruitore delle moderne
meraviglie rendendolo sempre più refrattario alle attitudini che
danno sapore e significato all’esistenza: curiosità,
introspezione, fantasia; cose tutte alla base del significato stesso
della vita umana in quanto presupposti e stimoli alla creatività.
Perchè prediligo l'acquatinta
Un
primo e più superficiale impulso risiede certamente
nell’intento di assicurare al meglio nel tempo la conservazione
del prodotto, ma sulla natura di quest’ultimo e circa le tecniche
per ottenerlo molto ci sarebbe da dire.
Occorre
premettere, in primo luogo, che, pur avendo studiato (e soprattutto
sperimentato) a lungo le tecniche xilografiche e calcografiche, non ho
al mio attivo la frequenza di appositi corsi accademici, ma una lunga
pratica di ricerca storiografica iniziata al tempo della mia laurea in
scienze politiche e mai più abbandonata, accompagnata, per di
più, da una discreta fortuna letteraria .
Ora,
quando qualcuno si appassiona ad approfondire l’aneddotica
relativa agli usi e costumi di società geograficamente
coincidenti con la nostra, ma da questa distanti nel tempo, finisce con
l’accarezzare il desiderio di arrivare, se non a rivivere, almeno
a captare qualche sprazzo; qualche frazione di vita d’una
realtà che pure ci appartiene (poichè da essa
discendiamo) ma che, per effetto dell’accelerazione storica
impressa dalla civiltà tecnologica, si allontana da noi a
velocità supersonica.
Quest’ultima
circostanza (da ciascuno avvertita più o meno coscientemente) ci
pone in una condizione conflittuale di amore/odio (o, se preferiamo, di
comodità/disagio). Dobbiamo riconoscere, in altri termini, che,
mentre non siamo tanto autolesionisti da rinunciare ai vantaggi
offertici dai tempi moderni, ci pesa doverne pagare lo scotto col
sentirci sempre più orfani d’un passato dal quale non
abbiamo avuto il tempo di allontanarci pacatamente. Siffatto sentire
diventa, poi, qualcosa di più d’una semplice sensazione se
si considera che molti dei vantaggi prospettatici dalla selva delle
attuali avveniristiche realizzazioni finiscono per rivelarsi fittizi
più che reali.
Gli
stimoli visivi che colpivano l’uomo medio del ‘700 lungo
l’intero arco della vita risultano di gran lunga inferiori a
quelli che noi assorbiamo nell’arco d’una sola giornata.
Sarebbe tuttavia pazzesco ipotizzare che tanto contribuisca ad
accrescere la nostra sensibilità verso la realtà che ci
circonda, o anche solo verso cio’ che insistentemente ci viene
propinato. Al contrario, diventiamo di giorno in giorno più
distratti e superficiali; in una parola: desensibilizzati. Vale a dire
che ci affanniamo a perdere in profondità ciò che
pensiamo di guadagnare in estensione.
Gradualmente
sono giunto alla conclusione che, se si vuol creare un’immagine
con la pretesa di renderla fruibile sotto il profilo
dell’attenzione; un’immagine che stimoli anzichè
deprimere la fantasia dell’osservatore, occorre realizzarla in
modo tale che presenti connotati tipici di un certo fascino del passato
pur attingendo a piene mani tra le tecniche e gli strumenti del
presente; impiegando cioè in maniera "altra" le stesse
possibilità offerteci da quella stessa tecnologia che è
alla base del cambiamento epocale in corso.
Ed
ecco farsi strada l’utilità del binomio
acquatinta-fotografia. Non già un revival della fotocalcografia
(arte di tutt’altro genere, niente affatto nuova e nella
quale resta insuperato il genio di Stiglitz), ma incisioni
realizzate manualmente con il ricorso a tecniche personalissime
che rifuggono dalle classiche graniture alla colofonia ed al bitume o
al fondino di sale.
Le
foto, scattate di preferenza a soggetti in movimento, una volta
scannerizzate, vengono lungamente manipolate, scomposte e ricomposte
con l’ausilio insostituibile del computer, quindi riportate su
lastra di zinco grazie al sapiente uso del pennello ed alla controllata
azione di più morsure.
Naturalmente,
il risultato finale varia da soggetto a soggetto presentando campiture
tonali a volte nette, talaltra (segnatamente nei ritratti),
morbidamente sfumate fino a tracciare, in certi casi, graniture che
potrebbero far pensare all’impiego di maniera allo zucchero.
Ed ecco, per finire ed in estrema sintesi, le tappe di massima del percorso creativo da me tracciato.
Scelta
e studio del soggetto per una ripresa mirata, non già
all’ottimale riproduzione fotografica, ma alla previsualizzazione
dello specifico impatto grafico che intendo ottenere; quello, per
così dire, di immagini collocate in una dimensione temporale
sospesa tra passato e presente
Tale
realizzazione non esclude l’impiego di ottiche anche molto
sofisticate (del resto gli artisti del passato non disdegnavano di
ricorrere alle esagerazioni prospettiche ed alle stesse
possibilità offerte dall’anamorfismo), ma dedico una cura
tutta particolare ai giochi di luce ed alla riproducibilità del
soggetto in una scala tonale ben appropriata.
Segue
lo studio su numero ed intensità delle campiture ottenute
mediante scomposizione dell’immagine in sei/sette o più
varianti
E’
una fase delicatissima, al punto da richiedere non pochi tentativi
prima di raggiungere un soddisfacente grado di equilibrio. Tutto ruota,
molto spesso, attorno alla determinazione del nero che, oltre a
rappresentare l’ossatura dell’immagine, evidenzia ( direi
che rivela) il tono di fondo di quello che verrà fuori a lavoro
ultimato.
Si
procede, quindi, con la scelta delle graniture Poiché non seguo
una tecnica a risparmio, ma procedo per successive sovrapposizioni, non
sarà difficile comprendere quante e quali cure richieda la
predeterminazione degli effetti finali ; per ciò stesso (e quasi
sistematicamente) affidata a morsure fortemente diluite.
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